23 Lug 2020

Fact Checking: migrazioni (e Covid-19)

Fact Checking

Anche sulla rotta migratoria del Mediterraneo centrale è arrivata l’estate. Rientrata almeno temporaneamente l’emergenza COVID-19 in Europa, gli sbarchi in Italia sembrano essere ripresi a pieno ritmo, così come le partenze dai paesi della sponda sud. È quanto traspare dalle notizie di cronaca che arrivano da giornali e televisioni. Davvero gli sbarchi in Italia sono tornati a livelli molto alti? Che ruolo gioca l’attività in mare delle Ong? E, più in generale, che effetto ha avuto la prima ondata di pandemia in Europa su migrazioni regolari e irregolari verso il continente?

Per rispondere a queste e altre domande ISPI ripropone il suo Fact Checking sulle migrazioni, che quest’anno prende giocoforza in considerazione l’impatto della pandemia sulle rotte migratorie e sulle risposte di policy, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti.
 

Prima della pandemia di COVID-19 gli sbarchi in Italia erano in aumento?

Sì, MA…

Nel primo semestre del governo Conte II, tra settembre 2019 e febbraio 2020, gli sbarchi erano più che raddoppiati rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (da 3.555 a 8.889). Tale constatazione ha spinto molti a pensare che l’Italia stesse rapidamente tornando verso quel periodo di “alti sbarchi” che, tra il 2014 e la prima metà del 2017, ha visto l’arrivo in Italia di oltre 600.000 persone.

La realtà, tuttavia, è molto diversa. Come mostra il grafico qui sopra, il periodo di alta stagione degli sbarchi in Italia è terminato ormai da oltre tre anni, esattamente da metà luglio 2017, in particolare dall’azione diplomatica e di intelligence italiana ed europea in Libia che ha indotto le milizie e i trafficanti a trattenere i migranti più a lungo nei centri di detenzione e a ritardarne la partenza (menzione particolare merita il memorandum italo-libico del febbraio 2017).

Il più che raddoppio degli sbarchi del primo semestre del governo Conte II va dunque inquadrato in un contesto di arrivi molto bassi sulle coste italiane, che nella prima metà del 2019 avevano toccato i loro minimi dal 2009. Non è un caso se, malgrado l’aumento degli sbarchi, il loro numero resti comunque incomparabilmente inferiore rispetto al periodo di alti arrivi sulle coste italiane. Per fine 2020 si prevede infatti che in Italia potrebbero sbarcare irregolarmente circa 20.000 persone: cifra inferiore del 90% inferiore rispetto a quella registrata nel 2016.

 

La pandemia ha ridotto gli sbarchi in Italia? 

Sì, MA…

Nel corso della “prima ondata” della pandemia in Italia (fine febbraio – inizio maggio 2020), gli sbarchi in Italia si sono considerevolmente ridotti rispetto al periodo precedente. A marzo, in particolare, complici anche condizioni atmosferiche avverse nella seconda metà del mese, gli arrivi irregolari sulle coste italiane sono diminuiti dell’80%.

Da notare, tuttavia, che non tutte le rotte hanno subito una contrazione simile, anzi: mentre, secondo dati raccolti da ISPI (fonti UNHCR e IOM), le partenze dalle coste tunisine si sono ridotte di circa il 90%, quelle dalla Libia solo di circa il 5%. Questa differenza è probabilmente indice del fatto che le persone che partono dalla Tunisia hanno più possibilità di rimandare il proprio viaggio in caso di gravi eventi imprevisti. Viceversa, le partenze dalla Libia sembrano risentire molto meno delle condizioni esterne e di contesto, probabilmente a causa delle gravi condizioni in cui si trovano i migranti presenti nel paese (spesso in centri di detenzione o in condizioni fortemente a rischio) e del fatto che i migranti stessi sono meno autonomi nel decidere sulla partenza, che dipende in misura maggiore dalle scelte dei trafficanti.

Inoltre, quello della pandemia sembra essere stato un effetto di breve periodo: nel giro di un mese e mezzo, gli sbarchi sono tornati a crescere rientrando nel trend precedente, per poi raggiungere il consueto picco stagionale ogni estate.

 

Le Ong davanti alle coste libiche fanno aumentare le partenze? 

NO

Il “pull factor” delle Ong non trova riscontro nei dati. È del tutto logico attendersi che la maggiore presenza di assetti di salvataggio in prossimità delle coste libiche possa rappresentare per i migranti un motivo in più per partire rispetto a quanto farebbero altrimenti. Come è logico pensare che a indurre i migranti alla partenza possano essere soprattutto unità navali “umanitarie” come quelle operate dalle Ong, la cui missione è proprio quella di soccorrere imbarcazioni in difficoltà e di accompagnare in un luogo sicuro, sempre europeo, le persone salvate.

Anche per questo motivo, da ormai quattro anni sono molte le accuse rivolte alle Ong di agevolare indirettamente il traffico di migranti, quando non di essere direttamente colluse con chi opera sulla terraferma. Non è dunque un caso che, ancora oggi Frontex, l’agenzia europea delle frontiere, nella sua Risk Analysis annuale includa la presenza degli assetti navali delle Ong quali fattori di attrazione per le migrazioni irregolari dall’Africa (p. 21).

Quanto al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o a eventuali altri reati penali va rilevato che, secondo dati originali raccolti da ISPI, dei 18 filoni d’inchiesta aperti nei confronti delle Ong tra aprile 2017 ed oggi cinque sono stati archiviati, mentre dei 13 rimanenti nessuno è ancora giunto in tribunale (quelli attivi sono dunque tutti ancora fermi alle indagini preliminari).

Per quanto riguarda invece il vero e proprio “pull factor”, ovvero la possibilità che la mera presenza delle navi Ong possa far aumentare le partenze, dal 1° gennaio 2019 ISPI – grazie alla collaborazione di UNHCR e IOM – raccoglie dati sul numero di migranti che lascia giornalmente la costa libica, sulle condizioni atmosferiche in mare, e sulla presenza di navi delle Ong al largo della Libia.

In questo modo è possibile constatare che, tra il 1° gennaio 2019 e il 14 luglio 2020 (un arco di 559 giorni, equivalente a più di un anno e mezzo), il numero di migranti partiti dalla Libia quando c’erano navi Ong al largo è praticamente indistinguibile dal numero di chi lo ha fatto senza alcun alcun assetto navale pronto a soccorrerli.

 

Europa: pandemia e lockdown hanno ridotto gli arrivi regolari? 

È ancora presto per capire di quanto si siano ridotti, ma di sicuro gli arrivi regolari verso i paesi dell’Unione europea hanno subito una contrazione significativa. Un indicatore di breve periodo che viene spesso utilizzato per predire gli arrivi regolari è quello della frequenza dei voli commerciali, che nel periodo più grave della crisi sono diminuiti del 70%. Ancora oggi, a cinque mesi dall’inizio della diffusione della pandemia di COVID-19 in Europa e Stati Uniti, il numero di voli commerciali nel mondo è più basso del 40% rispetto al trend pre-crisi.

Allo stesso tempo, tuttavia, bisogna considerare che la chiusura delle frontiere di molti paes produce anche un effetto anche opposto: impedisce il ritorno degli stranieri verso il proprio paese d’origine (così come gli spostamenti verso altri paesi terzi), e ha dunque l’effetto non solo di impedire l’immigrazione regolare ma proprio quello di creare uno stato di immobilità involontaria.

Il tracollo dei flussi migratori regolari ha già avuto notevoli conseguenze sul mercato del lavoro dei paesi europei. In molti di questi, infatti, si è verificata una forte carenza di forza lavoro, in particolare nei settori dell’agroalimentare, dell’assistenza a domicilio e della collaborazione domestica. Questo ha spinto diversi paesi europei a cercare alternative, tra le quali spicca la regolarizzazione degli stranieri già presenti sul territorio di destinazione in maniera irregolare, come quella attuata dall’Italia e quella attualmente in discussione in Spagna.

 

Bisogna temere il contagio “importato” dai migranti? 

DIPENDE

Dall’inizio dell’emergenza a oggi sono state meno di un centinaio le persone straniere giunte irregolarmente via mare in Italia e trovate positive al nuovo coronavirus. Il numero va confrontato con i 6.469 migranti sbarcati sulle coste italiane tra inizio marzo e il 14 luglio. In tutto, dunque, solo circa l’1,5% dei migranti sbarcati è risultato positivo. Da non dimenticare inoltre che le positività sono state certificate su gruppi di migranti che avevano condiviso la stessa imbarcazione durante il viaggio, dando credito all’ipotesi che un numero significativo di essi si sia infettato nel corso della traversata.

Ovviamente il rischio di “importare” persone infette da SARS-CoV-2 dall’estero non è mai zero, che si tratti di canali regolari o irregolari d’ingresso. Il virus è arrivato dall’estero, e nuovi “innesti” possono generare focolai locali: si vedano i casi del vicentino e di Roma. Inoltre, il rischio di reimportazione è alto solo laddove il virus non abbia già una sua diffusione locale: com’è ovvio, se in una regione d’Italia i casi attivi stimabili sono già nell’ordine delle migliaia o delle decine di migliaia, l’arrivo di poche decine di persone positive dall’estero non avrebbe lo stesso effetto rispetto a quando i casi attivi fossero quasi scomparsi.

Infine, mentre la polemica nelle ultime settimane si è concentrata prevalentemente sugli sbarchi, va ricordato che tutte le persone che sbarcano in Italia sono sottoposte sistematicamente a tampone e messe in quarantena almeno fino al suo esito o, nel caso, fino a negativizzazione del tampone. Ciò non avviene perchi arriva in maniera regolare, che sia per via aerea, via nave, in treno o in automobile: in tutti questi casi è prevista la possibilità di misurare la temperatura e vigono gli obblighi di indossare le mascherine e rispettare il distanziamento, ma non si procede sistematicamente al tampone ed è dunque più difficile risalire a casi “importati”, così come prevenirli.

 

Lockdown, riaperture e frontiere: l’Europa è riuscita a coordinarsi al meglio? 

NO

Dalla prima metà di marzo, l’emergenza COVID-19 in Italia e poi la diffusione dell’infezione in molti altri paesi europei ha spinto un gran numero di stati che fanno parte dello spazio Schengen di libera circolazione a reintrodurre i controlli alle proprie frontiere, di fatto impedendone l’attraversamento se non per motivi di assoluta necessità e urgenza. Dopo l’Austria, che ha chiuso le frontiere con l’Italia l’11 marzo, in totale ben 18 paesi Schengen su 26 hanno reintrodotto i controlli ai valichi di terra, con l’intento esplicito di tenere sotto controllo il flusso di cose e persone e, dunque, limitare l’ulteriore diffusione del virus. Insieme all’interruzione dei voli commerciali, questo ha limitato fortemente la possibilità di emigrare da un paese europeo all’altro.

La reintroduzione dei controlli per situazioni di emergenza è legale e regolata dal codice frontiere Schengen. Tuttavia, ad aprile la Commissione europea ha spiegato che i paesi hanno agito in maniera non coordinata, facendo prevalere l’interesse nazionale rispetto alla solidarietà e cooperazione intraeuropea. Azioni non coordinate che possono anche mettere a rischio il buon funzionamento del mercato unico, in particolare in un contesto di catene regionali e globali del valore strettamente interconnesse. Proprio per questo motivo nella stessa comunicazione la Commissione europea ha presentato una roadmap per il graduale allentamento delle misure di contenimento, basata su specifici criteri che sono poi stati fatti propri (con alcune modifiche) dagli stati membri. Criteri che, dunque, giungevano dopo circa un mese dall’adozione dei provvedimenti nazionali di chiusura delle frontiere.

 

Stati Uniti: Trump ha usato COVID-19 per ridurre i flussi migratori? 

Il 90% delle 65mila persone fermate al confine tra Stati Uniti e Messico ad aprile, maggio e giugno è stato espulso dal paese nel giro di poche ore. Le espulsioni sono state autorizzate da fine marzo, quando il Center for Disease Control and Prevention (CDC), l’agenzia per la sanità pubblica, ha emanato un ordine che autorizzava il blocco degli ingressi nel paese per pericolo di malattie trasmissibili. Giustificato per evitare affollamenti ai varchi di confine, in sostanza l’ordine permette di bloccare le richieste di asilo e protezione internazionale. Nonostante ciò, dopo un primo calo ad aprile, a giugno il numero di persone fermate al confine è quasi tornato ai livelli di marzo.

Ma in questi mesi il presidente USA Donald Trump ha tentato di ridurre anche i flussi regolari. Ad aprile, il presidente ha sospeso per 60 giorni l’emissione di alcune “green card”, ovvero i visti di residenza permanente. A giugno, la sospensione è stata estesa fino a fine anno e sono stati inclusi anche alcuni visti temporanei, tra i quali quelli per lavoratori qualificati (circa tre quarti dei quali vanno a persone che lavorano nell’industria tecnologica). Trump ha giustificato l’ordine esecutivo come un modo per diminuire il livello di disoccupazione dei cittadini americani, ma i critici hanno fatto notare che, anche durante la pandemia, il livello di disoccupazione nel settore high tech è diminuito. Secondo molti, la decisione di sospendere questi sarebbe una decisione controproducente per l’espansione dell’economia americana. 

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